Verso la fine degli anni ’90 gli jugoslavi pubblicarono un elenco (parziale) degli internati, nei vari campi di concentramento. Un amico, conoscendomi ed avendo notato il nome di mio padre, mi mandò una fotocopia della pagina in cui era elencato.
Bruno BATTILOMO: <Se dovessi riassumere, in una parola sola, la vita di quegli anni essa sarebbe sempre e solo quella: “
fame”.
Liberato nel gennaio del 1950 (uso sempre il termine “liberato” perché per me quella fu una vera liberazione), e vivendo poi con papà, senza più “razionamenti” e potendo mangiare quanto volevo e, soprattutto, quello che volevo, cominciai a diventare di gusti difficili, prediligendo certi cibi e scartandone moltissimi altri.
Ho fatto questa lunga premessa per spiegare come avvenne il fatto della mia venuta a conoscenza del campo di concentramento.
Accadde così. Un giorno, credo agli inizi del 1953, non volendo mangiare una minestrina di quel – per me puzzolentissimo – brodo “brustolà” che piaceva tanto a mia madre (che a dire il vero non amavo neppure nel periodo della mia fame acuta a Fiume, ma che allora, turandomi il naso, mangiavo lo stesso), addussi come pretesto il fatto che, su una delle macchiette di olio che galleggiavano sul brodo, vi fosse un moscerino.
Invitato più volte da papà a mangiare, io rispondevo sempre “moscerino, moscerino”.
Papà che non ci vedeva molto bene, per poter effettuare un rigoroso controllo e soprattutto per non darmela vinta, andò a prendere una lente di ingrandimento.
Dopo aver più volte controllato mi guardò con un’aria, che allora mi parve strana, ed iniziò questo breve racconto, che trascrivo, cercando, di essere il più fedele possibile, se non altro allo spirito di quanto disse:
“Devi sapere che sono stato prigioniero in un campo di concentramento, vicino a Maribor, dove vivevo in una baracca di legno, in mezzo ad un grande bosco, assieme a molte decine di altri.
C’era poco da mangiare, anche per i “drusi” che ci sorvegliavano: per lo più erano poche patate ed anche bucce di patate, che noi prigionieri cucinavamo in mezzo alla baracca su un grande calderone, oltre a qualche rara aringa affumicata. Poche volte abbiamo visto qualche pezzetto di carne.
Le patate dovevamo andarle a prendere noi (prigionieri) alla stazione del paesetto più vicino, che distava una decina di chilometri. Erano in sacchi da 50 kg. che pesavano più di me.
Ma tutti noi ci offrivamo volontari per questo pesante compito perché – quando sostavamo nelle radure per un breve riposo – durante l’andata e, soprattutto al ritorno, ci era concesso approfittarne per cercare cicoria selvatica e quant’altro potesse servirci per accrescere le nostre scarse razioni di cibo.
Al ritorno, mettevamo a cuocere sul calderone, assieme alle poche patate assegnateci, quanto avevamo raccolto.
Però, ad un certo punto, essendo il nostro cibo carente di vitamine per la mancanza di carne, eravamo stati quasi tutti colpiti dalla piorrea. Avevamo tutti una paura matta di perdere uno o più denti ed allora, per reperire proteine, cominciammo a dare la caccia ai “bacoli” (scarafaggi), che proliferavano nella baracca, per aggiungerli alla nostra dieta, facendoli bollire a lungo nel calderone insieme alla solita brodaglia giornaliera.
Però, per quanto fossero stati a bollire a lungo, l’esoscheletro (papà veramente lo disse con altra termine che ora non ricordo) non si sfaldava mai e quando ci capitava fra i denti, prima di buttarlo via, lo succhiavamo per bene.
E tu per un moscerino che sono riuscito a vedere solo con una lente di ingrandimento mi fai tante storie?”.
Ecco come venni a conoscenza del suo internamento nel campo di concentramento nei boschi di Maribor.>
<Mio padre Battilomo Mario (Commissario Capo di P.S. ad Ascoli Piceno dal 1952 al 1964 e giovane commissario a Fiume agli ordini della Medaglia d’Oro Palatucci, ultimi Questore di Fiume” fu arrestato assieme a mia madre il 24.12.1943 dalla Gestapo perché avevano fornito documenti falsi (mio padre) ed abiti civili (mia madre) ai soldati sbandati che dopo l’8 settembre del 1943, reduci dall’Albania e da altri fronti, transitavano per Fiume e non volevano essere presi dai tedeschi per finire in un campo di concentramento o negli altrettanto famigerati campi di lavoro della Todt.
Dovevano essere fucilati ma all’ultimo minuto il “seniore” fascista che li aveva denunciati, preso da rimorsi, con il pretesto di scoprire altri complici chiese di poterli interrogare e manovrò il verbale facendo risultare che avevano agito per motivi di danaro e non politici per cui non furono fucilati ma imprigionati come comuni malfattori. Mio padre fu rilasciato, in attesa di processo, il 9.4.1944. Invece mia madre fu portata il 12 giugno di quell’anno in ospedale perché doveva partorirmi il giorno dopo e poi per le note vicissitudini belliche non fu nuovamente incarcerata.
Terminata la guerra mio padre riuscì a tornare in Italia per riprendere servizio solo nel 1946.
Da notare che il 3 maggio del 1945, giorno dell’entrata a Fiume delle truppe titine, mio padre con grande dispregio verso la propria incolumità, si adoperò per salvare le sue vecchie guardie e finanzieri e carabinieri, nonostante non fosse stato ancora reintegrato in servizio. Oltre a questo riuscì a far pervenire a Roma alcune veline con resoconti della situazione. Presentatosi a Roma dal Capo della Polizia fu reintegrato in servizio. Chiese di tornare a Fiume per prendere la sua famiglia e, cogliendo l’occasione, fornire dettagli sull’evolversi della situazione locale. Il Capo della Polizia gli vietò espressamente di farlo perché riteneva che papà avrebbe corso seri pericoli. Purtroppo uno dei segretari del Capo della Polizia era un comunista che lo denunciò. Tornato a Fiume fu infatti arrestato per poi essere condannato (senza formale processo) a 6 anni e mezzo per spionaggio
A nulla valsero gli interventi degli allora Sottosegretari De Gasperi e Scalfaro e quelli del Comando alleato per il suo rilascio, che avvenne solo perché il 4.6.1948 (dopo meno di 3 anni trascorsibnel famigerato campo di concentramento nei pressi di Maribor) fu scambiato al valico di Gorizia, la famosa “Casa Rossa”. Da rimarcare il fatto che, per non far notare il suo deperimento, qualche mese prima del suo rilascio da Maribor fu trasferito in una prigione a Fiume dove gli diedero da mangiare. Ma anche così, quando fu rilasciato, pesava solo 47 chili.
Alcuni giorni dopo il suo arresto, l’O.Z.N.A. (la polizia segreta di Tito) decise di arrestare anche mia madre. Per sua fortuna, sapendo che mamma era sorvegliata, un tenente dell’O.Z.N.A. che la conosceva da bambina andò da mia nonna e l’avvertì di quanto stava per accadere. Mamma mi lasciò da lei e riuscì, in maniera rocambolesca nascosta in un carro bestiame, a scappare in Italia. Riuscii a rivedere i miei genitori quando mi liberarono nel gennaio del 1950.
Per quanto mi concerne, ho molti e vivi ricordi degli anni che vanno dalla fine del 1947 a quanto mi rilasciarono.
Nel 1947, fu data agli italiani la possibilità di optare “liberamente” per andare in Italia o rimanere sotto il “paradiso” comunista. La gran parte dei fiumani e dei giuliano-istriano-dalmati decisero di non rimanere e in 350.000 partirono. La maggioranza era di origine italiana e alcuni portavano nomi che poi divennero famosi (Nino Benvenuti, Laura Antonelli, etc,) ma ci furono anche decine di migliaia di origini istro/croata (da non confondersi con i croati) che scelsero
l’Italia in quanto spesso si sentivano più italiani degli italiani. Cito alcuni tra i tanti: Giorgio Gaber (Gabersich), Alida Valli (di origini tedesche ma che rifiutò le onorificenze di Tito perché si sentiva italiana).
Il regime titino non se lo aspettava e, soprattutto, dopo qualche mese si accorse che la maggior parte di quelli che partivano erano operai specializzati, necessari per la ricostruzione avviata. Così che iniziarono a dare permessi per il rientro in Italia con molto rilento. Una delle conseguenze più grandi furono vessazioni e l’inasprimento delle condizioni di coloro che avevano optato per l’Italia. A migliaia furono internati. Pochi sanno e parlano (oltre agli infoibati dal 1943 al 1947) del fatto che da quel periodo al 1954, quando fu chiuso l’ultimo di questi campi di internamento, vi morirono per fame più di 3.500 persone.
Ne presi coscienza anche io nel 1947 quando entrai nell’asilo.
Tutte le mattine, ripeto, tutte le sante mattine, quando entravo nell’aula assegnatami, venivo accolto da una “Drugariza” – (soldatessa) che portava una bustina con una grande stella rossa – con un sonoro ceffone. Non ricordo bene chi fossero ma ricordo bene che venivo trattato malamente da tutti quelli che portavano la bustina con stella rossa per cui cominciai ad odiare quel colore. Pur avendo una tessera annonaria, che in teoria mi doveva concedere qualche cosa da magiare (razioni scarsissime), quando mi recavo anche io con mia nonna a ritirare quando mi spettava, ricordo che sovente si rivolgevano a me, non a mia nonna, con un “talianski, nema … (italiano, niente …) per poi assistere alla consegna di quanto a me era stato rifiutato al croato che veniva dopo di noi. Avevo sempre fame e con il chiodo fisso di procurarmi da mangiare.
E per la fame un giorno ho venduto il mio orgoglio.
Per il compleanno di Tito portarono i bambini dell’asilo alla Casa del Partito per la cerimonia dell’alza bandiera. Scelsero dieci di noi (eravamo una banda di straccioni), da quello più basso a quello più alto: io ero quello più basso.
La mia “drugariza”, iniziando da me, ci annodava un fazzoletto “rosso” sul collo ma non aveva terminato la fila che già io me lo ero tolto. Nonostante gli schiaffoni, non ci fu verso di farmi mettere quella cosa rossa addosso fino a che la “drugariza” non mi promise che se avessi partecipato alla cerimonia con il fazzoletto rosso mi avrebbe dato uno “scartozzetto” (cartoccio) di frutta. Mi vendetti per un fico secco, una susina secca ed una mela piccolissima.
Pochi giorni dopo, terrorizzato dal fatto di aver rotto un piccolo cavallino a dondolo e temendo di essere “ucciso” dalla drugariza, scappai dall’asilo e non vi feci più ritorno.
Non stavo mai a casa dei nonni ma, come un sciuscià napoletano, vissi per strada e soprattutto nel contado dove, armato di una fionda, cacciavo gli uccellini per scambiarli dai contadini con un po’ di polenta (mi sembra che dovevo procurarmene 10 per neanche mezzo chilo).
A quei tempi si usava, tra noi ragazzi che vivevano per strada, farci una scazzottata ora con la banda degli ungheresi, ora con quella degli austriaci (che noi chiamavamo tedeschi) ed anche con i nostri cugini istro/croati. Verso la fine del 1948 arrivarono molti croati che cominciarono ad angariarci per cui formammo la “piccola” coalizione di italiani, ungheresi, tedeschi e istro/croati per contrastarli con una guerra fatta di sassaiole. Agli inizi del 1949 arrivò nel nostro rione un nutrito gruppetto di serbi che iniziarono a prenderci a calci appena ci vedevano. Potevano permetterselo perché erano tutti ragazzi che andavano dai 10 ai 14 anni mentre i nostri vari gruppi erano formati da piccoli gruppetti di bambini che andavano dai 5 anni (io) ai 6/9 anni.
Demmo allora inizio alla “grande” coalizione di italiani, ungheresi, tedeschi, istro/croati e croati per affrontarli, vincendoli sempre, anche se spesso tornavamo a casa feriti.
Da rimarcare che quando dalle scazzottate eravamo passati con i croati alle sassaiole, senza che fra di noi se ne parlasse, era sempre stata nostra cura munirci di piccoli sassolini levigati, che facevano male ma non ferivano. Con i serbi era l’opposto, ci munivamo di ciottoli più grossi ed i più ricercati erano quelli piatti, seghettati.
Il mio gruppo familiare fu “liberato” (uso questo termine perché per me fu una liberazione) a scaglioni: io, un fratello di mia madre con la moglie e due figli nel gennaio del 1950; mia nonna alla fine del 1950. Due altri fratelli di mia madre con le loro famiglie uno nel 1951 ed uno nel 1952.
Tutti noi abbiamo passato un periodo di tempo, più o meno lungo, in vari campi profughi, dove non sempre eravamo bene accolti dagli “italiani” e, per il solo fatto di aver rinnegato il “paradiso comunista”, tacciati di essere fascisti.
Io, prima che mi fosse permesso di ricongiungermi con i miei genitori, trascorsi alcuni mesi in un campo profughi di Chiari dove in cinque dormivamo in poco più di cinque metri quadrati, con le pareti fatte di cartone e la porta con una vecchia coperta militare. Altro che i moderni centri di accoglienza!>