/TUBERCOLOSI, LA PAROLA AL DOTTORE (CARLO CAPPELLI)
TUBERCOLOSI, LA PAROLA AL DOTTORE (CARLO CAPPELLI)
TUBERCOLOSI, LA PAROLA AL DOTTORE (CARLO CAPPELLI)
Pudicamente indicata con l’acronimo TBC (ti-bi-cì), questa malattia infettiva è stata una piaga sociale fino alla metà del Novecento. Nel dopoguerra il miglioramento delle condizioni di vita, delle abitazioni, dell’alimentazione, ma soprattutto la scoperta di un antibiotico attivo (streptomicina) sul ‘bacillo di Koch’ responsabile della malattia, l’hanno praticamente fatta scomparire in Occidente. Ha fatto notizia, perciò, ed è rimbalzata tra i media, il caso recente di un’insegnante che ha infettato l’intera classe dei suoi alunni. Ricordo un caso analogo che avvenne qui da noi, a Venarotta.
Le caratteristiche della TBC risiedono, come in ogni malattia infettiva, in quelle del suo agente, il bacillo di Koch. Si tratta di un parassita dalle modeste pretese e nient’affatto aggressivo. Ma proprio queste sue caratteristiche di apparente innocuità ne hanno fatto un gravissimo problema medico. Perché l’apparato immunitario di difesa riesce a malapena a riconoscerlo come un intruso e non si attiva a fondo per eliminarlo. Lo tollera, insomma, come uno dei tanti ospiti batterici del nostro corpo. Purtroppo però la via d’ingresso di questa infezione è quella respiratoria e proprio in questo apparato il germe si costruisce la sua prima ‘tana’, dentro i linfonodi del polmone, che sarebbe la sede dove dovrebbe avvenire invece la sua eliminazione. E qui può rimanere per tutta la vita del padrone di casa, contentandosi di riprodursi a stento, dando un minimo di fastidio con qualche saltuaria piccola sortita: periodi di tossetta stizzosa, qualche linea di febbre, un aspetto sciupato è tutto ciò che manifesta, e solamente a tratti, l’organismo ospite. Tutta qui è la ‘TBC primaria’, quella che un tempo la maggior parte degli adulti doveva conoscere durante la sua vita. Per diagnosticarla c’è il ‘test alla tubercolina’, una prova che si esegue sulla pelle e dimostra l’avvenuto contatto con il germe.
Ma allora dov’è il pericolo? Nel soggetto infettato è sempre possibile un improvviso abbassamento delle difese che tengono a bada l’intruso e allora questo, improvvisamente ringalluzzito, diventa un feroce predone, si riproduce a tutto spiano, distruggendo le cellule circostanti per alimentarsi. Se ciò avviene nel polmone, come di norma, si formano buchi nel tessuto (le famose ‘caverne’) e il malato, fino ad allora innocuo per chi gli sta vicino, diventa infettante con la tosse, come avviene in ogni comune forma influenzale (TBC aperta). Diversi episodi di questo tipo possono portare alla ‘tisi’, con il polmone ridotto come una groviera. La fine può avvenire anche all’improvviso per l’erosione di un importante vaso sanguigno polmonare e la conseguente ‘emottisi fulminante’. Se il vaso è piccolo, invece, si ha soltanto lo ‘sputare sangue’, cioè catarro sanguinolento che fa ancora paura tra quelli della mia generazione per il ricordo delle micidiali emottisi, ma è dovuto oggi a piccole emorragie provocate dalla tosse nei vasi della gola.
Anche altri quadri clinici gravi erano un tempo colpa della TBC. La ‘miliare’ era una forma diffusa, setticemica, causata dall’ingresso del germe nella circolazione, forma una volta quasi sempre mortale, ma capace pure, in caso di sopravvivenza, di trasferire l’infezione in quasi tutti gli organi interni, dove il germe si costruiva nuove ‘tane’. Insomma, se la TBC prendeva occasionalmente il sopravvento, anche se non provocava la morte, erano comunque dolori e lunghe sofferenze.
Penso che basti per capire quale piaga fosse un tempo questa malattia. Aveva perfino creato la necessità di edifici appositi di cura, i ‘sanatori’, dove si combatteva il male cercando di irrobustire il corpo con il riposo, l’aria buona (giardini di conifere), l’elioterapia (ampie terrazze dove soggiornavano i malati) e una ricca alimentazione. Tutto è diventato obsoleto con l’arrivo degli antibiotici, e tanto basti per comprendere la loro importanza.
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